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In questo articolo parliamo del Dia de Los Muertos, di ego e ancestor e dell’importanza della connessione tra vivi e morti, della memoria e del ruolo dell’egocentrismo nella celebrazione.

Il Día de los Muertos non è una semplice commemorazione dei defunti, ma un rituale complesso, stratificato e profondamente simbolico in cui convergono memoria, identità, spiritualità e un rapporto singolare tra il sé (ego) e gli antenati (ancestor). Questa festa mette in scena una visione del mondo in cui la morte non è una fine, ma un punto di contatto, una soglia permeabile tra i vivi e i morti. Leggi tutto sull’origine del Dia de Los Muertos.

La connessione tra vivi e morti

Il Día de los Muertos è il momento in cui, secondo la cosmologia mesoamericana e le credenze popolari, il confine tra il mondo terreno e l’aldilà si assottiglia fino a scomparire. Le anime dei defunti tornano a visitare i propri cari, attratte dagli aromi, dai colori, dalle luci e dagli oggetti disposti con cura sugli altares domestici. È una relazione bidirezionale, una connessione: i vivi accolgono i morti con offerte e gesti d’affetto, e i morti, a loro volta, partecipano simbolicamente alla vita dei loro discendenti.

Si tratta di un dialogo spirituale che rompe la linearità del tempo occidentale e si fonda su un’idea di circolarità e continuità tra generazioni.

Questa visione, profondamente radicata nella cultura precolombiana e poi fusa con elementi del cattolicesimo, sottolinea che i morti non “appartengono al passato”: essi continuano a far parte della famiglia, della comunità, della narrazione collettiva.

Ego e ancestor: la memoria come fondamento dell’identità

La centralità della memoria nel Día de los Muertos non è soltanto un atto affettivo, ma anche culturale e identitario. Ricordare i defunti attraverso fotografie, oggetti personali, cibi preferiti, musiche e racconti significa riaffermare chi siamo e da dove veniamo. L’ofrenda (l’altare) diventa così uno spazio materiale di memoria collettiva, un archivio affettivo che resiste al tempo e all’oblio.

In questo rituale, la memoria non è passiva né nostalgica: è attiva, performativa. Rievocare i morti non serve solo a consolarci, ma a rafforzare il senso di appartenenza a una storia più grande di noi, che ci precede e ci sostiene. L’eredità diventa il presente.

L’ego celebrato: l’individuo nella celebrazione

Curiosamente, in una festa che parla di antenati e memoria collettiva, l’ego, l’identità individuale, è tutt’altro che assente. Ogni ofrenda è costruita su misura per una persona specifica: contiene i suoi oggetti, le sue preferenze, le sue particolarità. L’ego del defunto viene messo in scena con cura, in modo quasi teatrale. Si ricrea il suo mondo, si ricorda il suo carattere, si raccontano le sue abitudini. È un atto profondamente egocentrico nel senso culturale del termine: non per glorificare l’individuo, ma per riaffermarne l’importanza nella rete delle relazioni familiari e comunitarie.

Anche l’ego dei vivi entra in gioco: preparare un’ofrenda è un atto che riflette l’affetto, la memoria e la dedizione di chi la costruisce. È un’occasione per raccontare se stessi attraverso il legame con l’altro scomparso. In questo senso, il Día de los Muertos rappresenta anche un momento di introspezione: un rituale in cui l’individuo si misura con il tempo, la morte, la perdita e la continuità.

Leggi tutto sulla Rappresentazione dell’etica nel Dia de los Muertos

Ancestors: il ritorno degli invisibili

Se da un lato l’ego è celebrato, dall’altro la figura dell’antenato assume una rilevanza centrale. Gli antenati non sono figure mitiche o distanti, ma presenze vive e attive, custodi invisibili del presente. Nel mondo mesoamericano precolombiano, gli antenati avevano un ruolo tutelare e intercessorio, e questa funzione è sopravvissuta nel sincretismo del Día de los Muertos. Invitare gli antenati a tornare significa anche riaffermare l’idea che il passato non è qualcosa da superare o dimenticare, ma una risorsa da tenere viva.

Nelle celebrazioni, il passato si fa presente e si proietta nel futuro. I bambini, coinvolti nella preparazione degli altari e nella narrazione delle storie familiari, apprendono i valori, i ricordi, le genealogie. In questo modo, gli ancestor non vivono solo nel rituale, ma nella trasmissione culturale e nell’educazione emozionale.

Ego e ancestor: connessione tra vita e morte

Il Día de los Muertos è dunque una festa della vita travestita da culto della morte. I colori accesi, le musiche allegre, i sapori intensi, le decorazioni ironiche e festose non fanno che rafforzare l’idea che la morte non è una cesura definitiva, ma una trasformazione. In questo contesto, ego e ancestor non sono in opposizione, ma coesistono e si rafforzano a vicenda. L’individuo viene celebrato proprio perché inserito in una rete più grande, in una continuità simbolica con chi è venuto prima e con chi verrà dopo.

In un mondo globalizzato in cui le identità si fanno fluide e la memoria si frammenta, il Día de los Muertos offre un modello alternativo: una ritualità in cui la morte non è tabù, ma parte integrante dell’esistenza, e in cui la memoria collettiva è un fondamento per l’identità personale.

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